polvere addosso

POLVERE ADDOSSO.

C’è un momento, prima o poi, in cui smetti di cercare risposte fuori e inizi a frugare dentro.
Un momento silenzioso, quasi impercettibile, in cui senti che le cose non scorrono più come prima.
Non per colpa di qualcosa, ma per colpa del tempo.
O forse per merito.

Mi guardo oggi, dopo una vita intera passata a costruire, e mi accorgo che non ho mai fatto altro.
Costruivo già da bambino.
Avevo le mani sempre occupate, i pensieri pieni di forme, di incastri.
I Lego erano il mio rifugio e il mio modo per dare ordine al mondo.
Ogni pezzo al suo posto, ogni struttura pensata per reggersi da sola, anche sotto pressione.
Come se già da allora sapessi che la vita avrebbe chiesto esattamente quello:
tenerti in piedi sotto carico.

Crescendo, ho continuato.
Ho costruito progetti, relazioni, luoghi.
Ho innalzato case, sogni, scuole, imprese, idee folli e concrete allo stesso tempo.
Ho tenuto in piedi il castello anche quando tremava tutto attorno.
Mi sono sporcato le mani, ho dormito poco, ho rincorso obiettivi che a volte nemmeno capivo più.
Ma sempre avanti.
Sempre a fare, a sistemare, a portare il peso, a costruire.
E spesso quei pesi non erano nemmeno miei, ma me li sono ritrovati addosso lo stesso,
perché qualcuno doveva reggere,
perché certe scelte le ho subite più che fatte,
e perché, a volte, sostieni fardelli che avrebbero schiacciato chiunque,
ma tu continui a camminare come se nulla fosse.
Per orgoglio, per istinto, o solo per non far crollare tutto.

Ma non si può vivere una vita per sopperire ai traumi del passato.
Non si può passare una vita intera cercando di colmare vuoti che non ci appartengono più,
o soddisfacendo le esigenze altrui solo per paura del giudizio,
inchiodati a quei “sempre sì” detti per abitudine, per evitare il conflitto, per non deludere.
Quei “sì” che diventano muri, che ti allontanano da te stesso.
E a forza di dire sì agli altri, finisci per dire no a te.

E nel frattempo, quante domande.
Sempre.
Troppe.
Su di me, sugli altri, su cosa è giusto e cosa invece “sento” sia giusto.
E spesso queste due cose non coincidono.
Dentro c’è una lotta perenne, una voce che chiede equilibrio, e un’altra che urla ribellione.
Una che vorrebbe silenzio, e un’altra che brucia di fuoco e urgenza.
E ogni tanto, dentro questo rumore, mi perdo.

Ma sto imparando.
A lasciar andare.
A non giudicarmi per tutto quello che non riesco a tenere in piedi.
A guardare me stesso con più tenerezza, anche quando ciò che vedo non mi piace.
La verità è che la vita, più va avanti, più ti rivela te stesso.
E non sempre è piacevole.
Ma è necessario.

Solo conoscendoti davvero puoi decidere chi vuoi diventare.
Solo accettandoti, puoi iniziare a cambiare senza odio.
Perché crescere non è diventare un’altra cosa.
È diventare finalmente te stesso, ma in pace.

E la pace, l’ho capito solo adesso, si trova solo quando il mare è calmo.
Non quando vinci.
Non quando fai.
Ma quando ti fermi, respiri, e il rumore dentro si placa.
È lì, nel silenzio tra un’onda e l’altra, che ritrovi l’equilibrio.
Lì capisci che non devi costruire più niente per forza.
Che anche stare è un verbo potente.

Non so ancora dove sto andando.
Ma oggi so che non voglio tornare.
E forse, questo, è già un inizio.

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